Come si dice buon appetito in pugliese?

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In pugliese, buon appetito si dice bonappetitu. Il prefisso bon- si unisce a vari sostantivi, come bonannu (buon anno), bongiornu (buon giorno), e così via. Lutilizzo di Santu o San è intercambiabile.
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Oltre il “Bonappetitu”: Un Viaggio nella Ricchezza Lessicale del Salentino

“Bonappetitu”. Sembra quasi un sussurro, un’onda dolce che precede il fragrante tripudio di sapori della cucina pugliese. Questa semplice espressione, apparentemente banale, cela in sé una ricchezza lessicale e una storia affascinante che vanno ben oltre la semplice traduzione di “buon appetito”. Capire il “bonappetitu” salentino significa immergersi nell’anima stessa di una cultura, nella sua storia e nella sua intima connessione con la terra.

La parola, come noto, deriva dalla fusione del prefisso “bon-“, di chiara origine latina, e dalla parola francese “appétit”. La sua diffusione nel Salento, e più in generale nel dialetto pugliese, testimonia l’intensa commistione linguistica che ha caratterizzato la regione nel corso dei secoli, un melting pot di influenze greche, latine, arabe e, in questo caso specifico, francesi. Questo incontro tra culture non ha solo arricchito il lessico, ma ha anche plasmato un’identità linguistica unica e vibrante.

Ma il “bonappetitu” non è un’isola linguistica isolata. Fa parte di una famiglia più ampia, un sistema coerente che vede il prefisso “bon-” applicato a diversi sostantivi per esprimere un auspicio positivo. “Bonannu” (buon anno), “bongiornu” (buon giorno), “bonaseru” (buona sera), sono solo alcuni esempi di questa elegante semplicità lessicale che rende il dialetto salentino così musicale e immediato. Questa coerenza interna, questa logica interna del linguaggio, dimostra una struttura linguistica ben definita, frutto di un’evoluzione organica e non di un’aggiunta casuale di termini.

Si potrebbe poi aggiungere una riflessione sull’intercambiabilità tra “Santu” e “San”, che riflette la familiarità e la devozione religiosa intrinseca alla cultura salentina. Questa flessibilità non è un errore, ma una testimonianza della vitalità del linguaggio parlato, dove la religiosità popolare permea anche l’espressione di un semplice augurio a tavola. L’uso di una forma o dell’altra dipende spesso dal contesto, dalla familiarità con l’interlocutore e dal livello di formalità desiderato, dimostrando la ricchezza e la sfumatura intrinseche nel dialetto.

In conclusione, il semplice “bonappetitu” non è solo un’espressione per augurare un buon pasto, ma una porta d’accesso a una cultura ricca di storia, di tradizioni e di un’incredibile varietà linguistica. È un piccolo tesoro lessicale che ci ricorda la bellezza e la complessità delle lingue locali, e la necessità di preservarne la ricchezza e la varietà. E, dunque, “bonappetitu”! Che la vostra esperienza culinaria sia arricchita non solo dal gusto dei piatti, ma anche dalla bellezza del linguaggio che li accompagna.