Perché è sbagliato dire buon appetito?

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Dire buon appetito a corte, specialmente quella di Luigi XVI, era malvisto. Gli chef la utilizzavano in modo passivo-aggressivo per spingere gli ospiti a consumare ogni portata del banchetto reale. Il mancato consumo di tutto il cibo era considerato unoffesa.

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Il Falso Bon Ton del “Buon Appetito”: Un Retaggio di Sfarzo e Ricatti alla Corte di Luigi XVI

Pronunciare “buon appetito” prima di un pasto è un’abitudine talmente radicata nella nostra cultura da sembrare quasi un riflesso automatico. Un gesto di cortesia, un augurio di piacere che accompagna l’inizio di un momento conviviale. Eppure, scavando nella storia, scopriamo che questa formula apparentemente innocua cela un passato inaspettato, un’ombra di maleducazione e persino di ricatto sociale, soprattutto se la declamiamo con nonchalance dimenticando le intricate dinamiche di potere che la animavano alla corte di Luigi XVI.

Il Palazzo di Versailles, con la sua opulenza sfacciata, era il palcoscenico di rituali rigidi e significati nascosti. Anche un semplice invito a mangiare si trasformava in una complessa operazione di controllo e sottomissione. Ed è qui che la frase “buon appetito” assume una connotazione ben diversa dalla sua accezione moderna.

Gli chef reali, maestri nell’arte culinaria quanto nell’arte della manipolazione, utilizzavano il “buon appetito” non come un gesto di sincera cordialità, ma come un velato avvertimento, un ordine mascherato da augurio. La tavola di Luigi XVI era imbandita con una profusione di pietanze, un trionfo di carni prelibate, pesci rari, salse elaborate e dolci decadenti. Un simile spettacolo di abbondanza non era solo un omaggio al re, ma anche una dimostrazione del suo potere, della sua ricchezza inesauribile.

In questo contesto, lasciare il cibo nel piatto non era semplicemente un segno di sazietà o di preferenza personale; era interpretato come un affronto diretto al sovrano e, di conseguenza, allo chef che aveva curato la preparazione. Il “buon appetito”, quindi, si trasformava in una sottile forma di pressione passivo-aggressiva: “Osate non apprezzare la magnificenza che vi è stata offerta! Osate non onorare lo sforzo profuso nella creazione di questo capolavoro culinario!”.

Non consumare ogni singola portata era percepito come una critica implicita alla qualità del cibo, un’insinuazione sulla capacità dello chef, e soprattutto, una mancanza di rispetto nei confronti del re che, attraverso quel banchetto, ostentava la sua potenza. La conseguenza? Possibili sanzioni sociali, sguardi disapprovare e, nel peggiore dei casi, la perdita del favore reale.

Ecco perché, alla corte di Luigi XVI, il “buon appetito” non era una gentilezza, ma un ricatto mascherato. Un’eco di un’epoca in cui anche il piacere del palato era legato indissolubilmente alle dinamiche di potere e alle aspettative sociali.

Oggi, fortunatamente, non viviamo più in un’epoca di re e di corti. Possiamo dire “buon appetito” senza temere rappresaglie, offese o implicazioni nascoste. Tuttavia, la storia ci ricorda che le parole, anche quelle più semplici e innocue, possono nascondere significati insospettabili, e che la cortesia, a volte, può essere la maschera di ben altro. E forse, la prossima volta che pronunceremo “buon appetito”, lo faremo con una consapevolezza maggiore, ricordando che le nostre parole, anche quelle più banali, sono intrise di storia e di cultura.